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I disturbi d’ansia hanno un’ incidenza del 18,1% ed una prevalenza, nel corso della vita, del 28,8% . Tuttavia solamente il 37% ricorre ad una qualche forma di assistenza sanitaria.
Una review pubblicata a gennaio su Current opinion in Psychiatry, evidenzia come lo stress cronico e l’ansia aumenti il rischio di sviluppare depressione ma anche la demenza, impattando sulle abilità cognitive ed affettive, e suggerendo un meccanismo comune per lo sviluppo della compromissione affettiva e cognitiva indotta da stress.
L’analisi dei dati ha rivelato agli autori dello studio guidato dalla dott.ssa Linda Mah, che vi è una «vasta sovrapposizione» degli effetti sui neurocircuiti del cervello da parte delle tre condizioni: ansia, stress, paura. Tutte e tre queste condizioni, secondo gli scienziati, possono spiegare il legame tra lo stress cronico e lo sviluppo di disturbi neuropsichiatrici, tra cui la depressione e la malattia di Alzheimer.
Lo stress cronico altera il circuito formato dalle strutture chiave amigdala, corteccia prefrontale mediale, ippocampo; queste strutture mediano il condizionamento alla paura e all’estinzione della stessa e servono anche a regolare la risposta allo stress.

Sotto stress si osserva la disattivazione della corteccia prefrontale e l’iperattivazione dell’amigdala.
L’amigdala è un’area del cervello ritenuta importante nei processi emotivi e coinvolta anche in una forma particolare di memoria che è quella emozionale, mentre la corteccia prefrontale controlla le funzioni esecutive come la capacità di prendere decisioni o la memoria cosiddetta a breve termine.
In situazioni di stress le ghiandole surrenali immettono nel sangue adrenalina, noradrenalina ed ormoni steroidi (tra cui il cortisolo e ACTH anche chiamato ormone dello stress), l’amigdala intervienee nel controllo del loro rilascio.
Questi ormoni hanno effetti sulla memoria.
L’adrenalina ha un effetto potenziante sulla memoria, gli ormoni steroidi possono avere un effetto facilitante, ma elevati livelli bloccano la memorizzazione di nuove informazioni.
La degenerazione strutturale della corteccia prefrontale e dell’ippocampo, che è la principale struttura implicata nella memorizzazione dei ricordi coscienti (memoria esplicita), conducono a deficit nella regolazione delle emozioni e disturbi cognitivi, e potrebbe quindi spiegare l’aumento del rischio di sviluppare disturbi neuropsichiatrici, tra cui la depressione e la demenza.

fonte: psicologi@lavoro

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Silhouette of woman in lotus position at sunset

Un minuscolo gruppo di neuroni situato nella parte del tronco encefalico che controlla la respirazione comunica direttamente con una struttura cerebrale coinvolta nelle risposte allo stress. La scoperta potrebbe indicare le basi fisiologiche degli effetti calmanti della meditazione e avere ricadute sullo sviluppo di farmaci contro gli attacchi di panico e altri disturbi.
E’ un piccolo gruppo di neuroni nel tronco cerebrale a regolare i rapporti fra la respirazione e le attività cerebrali superiori connesse a uno stato di calma oppure di agitazione.

La scoperta è di un gruppo di ricercatori della Stanford University, che firmano un articolo pubblicato su “Science”. In prospettiva, il risultato può avere ricadute in campo clinico con lo sviluppo di nuove terapie contro gli attacchi di panico e altri disturbi legati a stati di stress.
Anche se la respirazione è generalmente considerata un comportamento controllato soprattutto dal sistema nervoso autonomo, l’esistenza di strette connessioni con le aree cerebrali che presiedono alle funzioni cerebrali superiori è ben nota e ampiamente testimoniata, per esempio, dagli studi sugli effetti della meditazione, che ha uno dei suoi cardini proprio nel controllo della respirazione.

Tuttavia finora non era chiaro quali fossero i centri e i meccanismi neuronali che presiedono ai rapporti fra respiro e cervello.
In uno studio sperimentale sui topi, Kevin Yackle e colleghi hanno ora identificato il regista di questi rapporti in un piccolo gruppo di neuroni situato nel tronco cerebrale.
Si tratta in particolare di circa 175 neuroni del cosiddetto complesso di pre-Bötzinger, un articolato gruppo di 3000 neuroni circa la cui attività ritmica avvia i movimenti respiratori. I neuroni di questa sottopopolazione inviano delle proiezioni direttamente a un’area del cervello, il locus coeruleus, che ha un  ruolo chiave nello stato di vigilanza in generale, nella focalizzazione dell’attenzione, e nelle risposte allo stress.

Dopo aver eliminato in alcuni topi i neuroni identificati, i ricercatori hanno constatato che la loro respirazione era rimasta perfettamente normale, ma che gli animali rimanevano insolitamente tranquilli anche se erano sottoposti a stimoli che normalmente inducono una risposta di stress.
Dato che questi neuroni possono essere identificati grazie alla presenza di specifici marcatori molecolari, i ricercatori sperano che sia possibile sviluppare in tempi relativamente brevi farmaci in grado di agire selettivamente su di essi.

fonte: LESCIENZE.IT

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Pratiche come lo yoga e la meditazione da secoli sono chiavi per raggiungere il relax. Ora uno studio scientifico spiega perché. Un team di ricercatori dell’University of California a San Francisco ha scoperto un nuovo tipo di neuroni, che collega il ritmo del respiro alla sensazione di allerta. In uno studio sui topi si è visto che distruggere questi neuroni rende gli animaletti molto calmi, e questo può spiegare perché la respirazione profonda faccia sentire le persone così rilassate. Kevin Yackle e il suo gruppo hanno chiamato queste cellule cerebrali i ‘neuroni pranayama’, riferendosi proprio a un esercizio di respirazione dello yoga.

Gli scienziati li hanno identificati usando un database dell’attività dei geni in diversi neuroni dei topi. Ebbene, i neuroni pranayama sono gli unici nella loro area cerebrale a produrre due particolari proteine. Ci sono solo 350 ‘neuroni della calma’ nel cervello di un topo, localizzati in una regione responsabile del controllo del respiro. I ricercatori hanno scoperto che le cellule si collegano ad un’area vicina, nota per controllare l’allerta. A questo punto hanno ingegnerizzato tre topi uccidendo i loro neuroni pranayama, senza toccare le altre cellule cerebrali. Una volta che i neuroni sono stati distrutti, gli animali hanno iniziato a respirare più lentamente. Non solo, sono diventati meno curiosi e molto più ‘coccolosi’. Insomma, erano molto rilassati.

Il ruolo normale di questi neuroni potrebbe essere quello di far sì che, quando gli animali sono attivi e impegnati nell’esplorazione dell’ambiente, respirando rapidamente aumenti l’allerta. Se lo stesso meccanismo funziona nelle persone, respirare più lentamente renderebbe i neuroni meno attivi, riducendo i livelli di stress. In futuro, l’idea è quella di poter disegnare dei farmaci che ‘spengano’ l’attività dei neuroni senza danni.

“Si tratta di un lavoro molto interessante – commenta all’AdnKronos Salute Marcello D’Amelio, associato di Fisiologia umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma – I neuroni pranayama regolano il ritmo del respiro. Ebbene, la maggior parte dei decessi in chi usa sostanze di abuso è legata proprio a morte respiratoria per effetto degli oppioidi. Lo yoga, inoltre, favorisce il rilascio di oppioidi endogeni e la mia ipotesi è che il relax determinato dalla riduzione della frequenza del respiro sia legato proprio a queste endorfine”, conclude.

fonte: ADNKRONOS

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Uno studio della Northwestern University Feinberg School of Medicine ha riscontrato che alcune funzioni cerebrali possono essere condizionate dalle fasi della respirazione.
Non c’è niente di più naturale che respirare. Alla base della nostra sopravvivenza, è un processo biologico che compiano di continuo, ci garantisce il necessario apporto di ossigeno e può variare in intensità. Ora i ricercatori della Northwestern University Feinberg School of Medicine per la prima volta hanno suggerito che il ritmo della respirazione è in grado di generare attività elettrica nel cervello e, in questo modo, incidere sulla memoria e su emozioni quali la paura.

Lo studio, pubblicato sul Journal of Neuroscience, ha scoperto che i volontari coinvolti riuscivano a riconoscere più facilmente una faccia spaventata durante la fase di inspirazione rispetto a quella di espirazione. Un effetto simile si è riscontrato anche nel richiamare alla memoria un oggetto, poiché il processo è risultato più semplice mentre si inspira. Ulteriore aspetto evidenziato dallo studio è che la differenza è apprezzabile solo in caso di respirazione tramite il naso, poiché non vi sono discrepanze quando si utilizza la bocca.

Nel dettaglio, gli studiosi hanno notato che l’attività cerebrale muta nell’amigdala e nell’ippocampo quando inspiriamo rispetto a quando espiriamo; infatti, vengono stimolati i neuroni in tutto il sistema limbico. La base di partenza per la ricerca è stata comunque l’analisi di sette pazienti con epilessia per i quali era previsto un intervento chirurgico al cervello.

Pochi giorni prima dell’intervento stesso sono stati acquisiti i dati dai cervelli, grazie a degli elettrodi impiantati da un chirurgo per comprendere l’origine degli attacchi epilettici. In questo modo i segnali elettrici rilevati hanno mostrato la variazione di alcune attività cerebrali con il respiro. Una scoperta che ha spinto gli scienziati a domandarsi se fosse possibile stabilire una relazione proprio fra le funzioni associate alle aree coinvolte e la respirazione. E’ stato perciò chiesto a 60 volontari di indicare più rapidamente possibile il tipo di emozioni espresse da alcuni volti (per esempio, sorpresa o paura) visualizzati al pc, mentre veniva registrato il loro respiro.

I risultati ottenuti sono stati i seguenti: durante la fase di inspirazione i soggetti hanno riconosciuto i visi spaventati (ma non quelli che indicavano stupore) in maniera più veloce che non durante l’espirazione. Un effetto singolare che però è stato riscontrato solo durante la respirazione con il naso e che si annulla in caso si svolga la stessa operazione con la bocca. Nella seconda parte dell’esperimento è stato invece chiesto ai partecipanti di ricordare alcune immagini che apparivano sempre sullo schermo di un PC. Quando le foto erano visualizzate nella fase di inspirazione il richiamo alla memoria è risultato più immediato.

La conclusione evidenziata da Christina Zelano, autrice principale della ricerca, è che nelle situazioni di panico il ritmo della respirazione aumenta e, di conseguenza, la fase di inspirazione è molto più lunga rispetto ai momenti di serenità. In questo modo il respiro accelerato potrebbe avere un effetto sul lavoro che compie il cervello ed aiutare a prendere decisioni più veloci in circostanze pericolose.

fonte: REPUBBLICA.IT

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